Di Stefano Carbone
pubblicato in Martus Journal dicembre 2011
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La storia delle scoperte archeologiche è spesso anche la storia delle variabili che entrano in gioco concorrendo a determinarle.
Nel caso di Carmelo Santonocito, un edicolante sui generis, appassionato di lingue e civiltà antiche, il ritrovamento subacqueo di quelli che, con buona probabilità, si ritiene essere i resti di un tempio, forse pertinente al santuario di Artemis, luogo di culto che ha attraversato intatto i secoli e che, secondo le fonti bizantine, conobbe una delle prime prediche di San Paolo in Italia, è l’esito imprevisto di una ricerca.
Nel caso di Carmelo Santonocito, un edicolante sui generis, appassionato di lingue e civiltà antiche, il ritrovamento subacqueo di quelli che, con buona probabilità, si ritiene essere i resti di un tempio, forse pertinente al santuario di Artemis, luogo di culto che ha attraversato intatto i secoli e che, secondo le fonti bizantine, conobbe una delle prime prediche di San Paolo in Italia, è l’esito imprevisto di una ricerca.
E’ un punto in particolare ad attirare l’attenzione del gruppo, incoraggiandolo a concentrarvi le indagini: uno specchio di mare, collocato a sud della città e oggi denominato Calamizzi.
Non un luogo qualsiasi. Fino alla metà del XVI secolo, in piena età rinascimentale, su quelle acque non lontane dalla costa, si estendeva un promontorio che sprofondò improvvisamente in mare, senza lasciare traccia, alla fine del 1562.
Di Punta Calamizzi non esisterebbero testimonianze figurate se un pittore fiammingo, PieterBruegel il Vecchio, non l’avesse riprodotta in un suo disegno poco prima che questa colasse a picco.
Storia e leggenda trovano qui un punto di convergenza ideale, sostenute dall’autorità delle fonti antiche: il promontorio in questione, in tempi antichissimi, avrebbe ospitato il tempio di Artemis, (che sorgeva non lontano dal sepolcro di Iokastos, mitico figlio di Eolo, là ucciso dal morso di un serpente) e sarebbe stato scelto dai coloni di Calcide per fondarvi la nuova città.
Non solo. A prestar fede alle cronache del VII-VIII, avvenne qui il primo approdo di San Paolo in Italia, durante le feste pagane in onore della dea.
Resti del frontone del tempio |
In quell’occasione, all’apostolo fu concesso di predicare il Vangelo agli abitanti, condizionando però la durata della predica al tempo di consunzione di una candela, posta sopra una colonna rotta del tempio. Leggenda vuole che, una volta disciolta la cera, la colonna prendesse fuoco, permettendo così al santo di continuare a parlare.
Alla nuova fede venne consacrata la primitiva chiesa, guidata da Stefano di Nicea, primo vescovo della città di Reggio e, in epoca bizantina, il monastero di San Nicola Drakonariates.
Quando Punta Calamizzi sprofondò nel giro di pochi attimi un giorno (di dicembre, secondo le cronache contemporanee) del 1562, scomparve per sempre un luogo sacro, un punto in cui tradizione pagana e culto cristiano si intrecciano, raccogliendo l’esperienza religiosa di secoli e spingendo a dar credito ai racconti dei pescatori che, da sempre, narrano di templi e chiese sommerse, proprio in quelle acque.
Le continue scorrerie dei pirati turchi avevano reso necessaria una più imponente fortificazione del porto di Reggio, allora unico porto naturale della Calabria, insieme a quello di Crotone. Mancando però lo spazio adeguato alla costruzione del nuovo fortilizio, si decise di usare l’ampia foce del fiume Calopinace, deviandone il corso e facendolo sfociare a sud di Punta Calamizzi.
Iniziati nel 1547, i lavori subirono un’interruzione nel 1556 per non riprendere più fino al XVIII sec.
Le fonti suddette non rendono conto nemmeno di quell’interruzione, ma è verisimile che il successivo inabissarsi del promontorio debba ascriversi al dissesto idrogeologico causato dallo spostamento del corso del fiume.
E’ lì che Vincenzo Borrelli e Gianni Capolupo della Polizia di Stato, sommozzatori e amici dell’autore, effettuano le prime immersioni.
I sub si ritrovano in poco tempo in un profondo canalone scavato nel fondale, praticamente a ridosso della spiaggia. La spiegazione non poteva essere che una: si trattava della foce del Calopinace dal 1547 al 1562.
A sette-otto metri di profondità, in un sito occupato fino a poco tempo prima da una prateria di poseidonia e sepolto sotto mezzo metro di sabbia, i sub individuano un crollo di ragguardevoli dimensioni, con massi in pietra squadrati, basi e rocchi di colonne, ad interessare un’area di circa otto metri di diametro.
La superficie modanata di uno di questi massi è particolarmente significativa e intorno ad essa si sono raccolte, fin dalle prime immersioni, le speranze degli scopritori: secondo il prof. Castrizio infatti, quell’alternanza di metope e triglifi, ben visibile dalle foto subacquee, farebbe pensare alla trabeazione di un tempio. Il tempio di Artemis?
Alla nuova fede venne consacrata la primitiva chiesa, guidata da Stefano di Nicea, primo vescovo della città di Reggio e, in epoca bizantina, il monastero di San Nicola Drakonariates.
Quando Punta Calamizzi sprofondò nel giro di pochi attimi un giorno (di dicembre, secondo le cronache contemporanee) del 1562, scomparve per sempre un luogo sacro, un punto in cui tradizione pagana e culto cristiano si intrecciano, raccogliendo l’esperienza religiosa di secoli e spingendo a dar credito ai racconti dei pescatori che, da sempre, narrano di templi e chiese sommerse, proprio in quelle acque.
Le continue scorrerie dei pirati turchi avevano reso necessaria una più imponente fortificazione del porto di Reggio, allora unico porto naturale della Calabria, insieme a quello di Crotone. Mancando però lo spazio adeguato alla costruzione del nuovo fortilizio, si decise di usare l’ampia foce del fiume Calopinace, deviandone il corso e facendolo sfociare a sud di Punta Calamizzi.
Iniziati nel 1547, i lavori subirono un’interruzione nel 1556 per non riprendere più fino al XVIII sec.
Le fonti suddette non rendono conto nemmeno di quell’interruzione, ma è verisimile che il successivo inabissarsi del promontorio debba ascriversi al dissesto idrogeologico causato dallo spostamento del corso del fiume.
E’ lì che Vincenzo Borrelli e Gianni Capolupo della Polizia di Stato, sommozzatori e amici dell’autore, effettuano le prime immersioni.
I sub si ritrovano in poco tempo in un profondo canalone scavato nel fondale, praticamente a ridosso della spiaggia. La spiegazione non poteva essere che una: si trattava della foce del Calopinace dal 1547 al 1562.
A sette-otto metri di profondità, in un sito occupato fino a poco tempo prima da una prateria di poseidonia e sepolto sotto mezzo metro di sabbia, i sub individuano un crollo di ragguardevoli dimensioni, con massi in pietra squadrati, basi e rocchi di colonne, ad interessare un’area di circa otto metri di diametro.
La superficie modanata di uno di questi massi è particolarmente significativa e intorno ad essa si sono raccolte, fin dalle prime immersioni, le speranze degli scopritori: secondo il prof. Castrizio infatti, quell’alternanza di metope e triglifi, ben visibile dalle foto subacquee, farebbe pensare alla trabeazione di un tempio. Il tempio di Artemis?
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