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domenica 25 novembre 2018

ECCEZIONALE SCOPERTA ARCHEOLOGICA: si trova esposta nel museo Artemis di San Sosti un'olla funeraria di tipo protovillanoviano con svastica incisa


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La svastica è un segno simbolico rinvenuto presso innumerevoli popolazioni dalla preistoria fino in età storica. Variamente interpretato nel quadro del simbolismo solare, essa consiste in una croce con quattro braccia di uguali lunghezza che terminano in altrettanti angoli retti volti verso sinistra. Etimologicamente il termine “svastica” deriva dal sanscrito “svastika” che a sua volta è un derivato di “svastì” (prosperità) , composto dal prefisso “su” (equivalente al greco “eu“= bene), da “asti” (verbo “as” = essere) e dal suffisso “ka” con valore diminutivo. 
La traduzione, dunque, è “benessere”.
Ma assume divìfferente significato in base al suo orientamento: se è rivolta verso sinistra, essa indica la vita, la luce, l'abbondanza. Il benessere, appunto. 
Se è rivolta verso destra indica la morte. 
Nell'età del Bronzo Finale e del primo Ferro (XII-XI sec, a.C.) è diffusa presso i protovilloanoviani e protoestruschi dell'Italia centro-meridionale e viene raffigurata sulle urne cinerarie e sulle sculture fittili rituali. 
Un rarissimo esempio è l'olla cineraria, risalente all'XI sec. a.C. rinvenuta nel comune di Bisignano (CS), conservata presso il Polo Museale della Sibaritide, attualmente esposta presso il museo Artemis di San Sosti (CS). 
Ma vediamo alcuni esempi di svastica nell'arte antica. 


1) Bambola micenea risalente all’Età del bronzo. Su di essa sono raffigurate in maniera stilizzata svastiche, esseri umani e soli, quasi a simboleggiare un connubio tra questi tre elementi. I raggi della svastica infatti sono stati paragonati ai raggi del sole ed il suo andamento allo scorrere del tempo e, quindi, delle stagioni.


2) Olla cineraria dell''XI sec. a.C. rinvenuta a Bisignano (CS), esposta presso il museo Artemis di San Sosti.


3) Nell’ Antica Grecia la svastica raggiunge la massima diffusione nel tardo geometrico (sul finire del VIII secolo a.C.), quando compare su anfore, kylix, cantari, oinochoi, pelike, crateri, ecc… Essa si presenta o come decorazione a se stante o, nella maggior parte dei casi, come sequenza ripetuta.


4) Anfora rinvenuta nell’antica Thera, l’odierna Santorini, su cui è raffigurata una colomba con la svastica. I Greci consideravano la colomba l’uccello di Afrodite, un simbolo d’amore ancor prima che i Cristiani la caricassero della valenza di fratellanza che ancora oggi mantiene.


5) Oinochoe trilobata con coperchio proveniente dalle necropoli geometriche di Maratona raffigurante una svastica isolata sul davanti.


6) Tazza geometrica corinzia la cui datazione corrisponde al  760 a.C. Anche in questo caso la svastica compare sul davanti intervallata da figure quadripartite, come quattro sono i suoi bracci.   


7) Una svastica su uno statere, una moneta greca in argento proveniente da Corinto e risalente al VI secolo a.C. I raggi questa volta sono smussati quasi a riprendere la direzione delle ali di Pegaso, il cavallo alato rappresentato sull’altra faccia del soldo.


8) Busto femminile in terracotta, acefalo, risalente VII sec. a.C. e facente parte di una decorazione architettonica. Ripetute sono le svastiche sul petto a mo’ di ornamento.


9) Simbolo della svastica su un mosaico romano del II secolo d.C, racchiuso in un triangolo i cui lati sono basi di triangoli. In questo mosaico vi è racchiuso un forte simbolismo insito nelle figure geometriche che indicano armonia e proporzione.


10) Mosaico della Villa del Casale di Piazza Armerina che ha per protagonisti due venatores (cacciatori), uno dei quali con una svastica sul bordo della tunica.

Foto (Dino Brindisi)

11) SYbaris: Ambiente mosaicato con svastica. II sec. a.C.


11) Svastica Nazista con braccia rivolte verso destra, simbolo di morte. Questa raffigurazione significava l'eliminazione di ogni nemico del popolo germanico.

mercoledì 7 febbraio 2018

TARANTO: TEMPIO DI POSEIDON O PERSEPHONE?


Fino al 1700 le colonne residue del Tempio Dorico di Taranto erano una decina. Lo sappiamo perché Artenisio Carducci, nel commento alle “Deliciae Tarentine” di Tommaso D’Aquino, parla di “dieci spezzoni di colonne d’ordine dorico” che furono successivamente infrante per consentire la costruzione del Convento dei Celestini.
Di queste, solo una restò a testimonianza dell’antica esistenza del tempio. Vista l’importanza del reperto, mi aspettavo che la colonna superstite fosse degnamente segnalata da un cartello o illuminata da un faretto. Anche di pochi watt. Macché.
La colonna solitaria era letteralmente incastrata nella struttura muraria di un piccolo cortile (quello dell’ex ospedale dei Pellegrini, attiguo al Convento dei Celestini ) e il suo capitello faceva da terrazzino a un balcone abbellito allegramente con vasi di piante e fiori.
Il primo a intraprendere i lavori di rinvenimento del Tempio Dorico di Taranto fu Luigi Viola. Fece liberare il fusto dell’unica colonna visibile dai vari strati di intonaco che ne avevano deturpato l’aspetto, scavò in profondità – fino a rinvenire i rocchi inferiori della colonna – e all’altezza del suo capitello. Qui individuò un secondo capitello completamente incastrato nella struttura.
Era il 1881 e, dopo allora, non venne più fatta alcuna esplorazione archeologica. Era infatti implicito che ogni altra indagine richiedeva la demolizione parziale o totale delle costruzioni esistenti e le autorità ecclesiastiche erano restie a permettere la distruzione dei luoghi sacri di loro pertinenza.
Poi, qualcosa avvenne. Qualcuno mostrò interesse per i ruderi del Tempio? Non proprio. I lavori di demolizione del Convento dei Celestini (divenuto nel frattempo un distretto militare) cominciarono, ma solo per costruire il Palazzo delle Poste. Taranto aveva bisogno di un edificio da adibire a questo scopo e, con tanto spazio a disposizione, non si trovò area migliore che quella dell’ex Convento.
Durante i lavori di costruzione delle Poste, vennero prevedibilmente alla luce i primi blocchi di carparo del tempio dorico. Altolà! Fermo ai lavori e decreto di inedificabilità dell’area.
Tuttavia, Taranto non ebbe nemmeno in questa occasione il suo tempio. Tanto per dirne una, la seconda guerra mondiale sospese ogni iniziativa. In più, i fondi necessari ai lavori scarseggiavano. Insomma, parafrasando Manzoni: “Questo tempio non s’ha da fare”.
Solo negli anni ‘70 l’Amministrazione Comunale di Taranto si assunse la responsabilità dell’esecuzione degli scavi.  Il lavoro delle talpe nell’area di interesse liberò i resti del tempio dorico dalle costruzioni posticce e le due colonne videro finalmente la luce dopo anni di occultamento e di incuria.

STILE ARCHITETTONICO E INTITOLAZIONE 
Attualmente, del Tempio di Poseidone rimangono due colonne e la base di una terza, ma da una serie di calcoli è emerso che era un periptero esastilo con 13 colonne sui lati lunghi e sei sulla fronte. 


Tempio dorico di Taranto: pianta assonometrica e ricostruzione.

Avanti alle colonne rinvenute doveva essercene almeno un’altra con un diametro più largo: le colonne situate agli angoli, infatti, venivano rese più robuste per conferire maggiore staticità alla struttura. Le colonne supersiti sono alte più di 8 metri e il materiale usato per costruirle è il carparo.
La scanalatura delle colonne aveva una precisa funzione: su di essa incideva la luce del sole, variabile nel corso del giorno, e questo creava dei piacevoli toni chiaroscurali che donavano all’edificio maggiore risalto.
L’ingresso del Tempio di Poseidone  si affacciava sicuramente sul canale navigabile perché quasi tutti i templi greci avevano il fronte rivolto ad oriente.
L’attribuzione del Tempio Dorico a Poseidone risale a Luigi Viola, semplicemente considerando che il dio del mare era il patrono di Taranto e i coloni non potevano che consacrare a lui il principale luogo di culto.
In realtà, è più probabile che il monumento fosse dedicato ad una divinità femminile. Con molta probabilità, il tempio era dedicato a Persephone, infatti, questa dea ha sempre goduto di un’altissima considerazione e gli studiosi sono tutti concordi nel ritenere che la statua di Persephone attualmente situata nel museo di Berlino sia, in realtà, di provenienza Tarantina.
Kore di Berlino: Fine VI/inizio V sec. a.C.

In più, durante gli scavi per il rinvenimento del Tempio Dorico, sono stati trovati 3 frammenti di statuette rappresentanti una donna seduta in trono, insieme a resti di ossa, zanne di suini e terra bruciata. Questo insieme di elementi rende più che verosimile l’ipotesi che nell’antico tempio i coloni facessero sacrifici in onore di una divinità femminile.


A cura di:
Paolo Ulpio Paleologo

mercoledì 6 settembre 2017

A QUANDO RISALE LA FIERA DEL PETTORUTO?

Fiera del Pettoruto 2017 (Foto di Matilde Capalbo)

A QUANDO RISALE LA FIERA DEL PETTORUTO?

La Fiera del Pettoruto fa parte della nostra identità culturale, si svolge in località Piano della Fiera (appunto) sin da tempi remoti, collocabile all'età greca e romana. Infatti, le fiere ed i mercati, già a partire dall'età greca-arcaica si svolgevano immediatamente fuori dai centri abitati e in prossimità di un santuario extra-urbano, che solitamente sorgeva lungo le vie di comunicazione. La fiera aveva per gli antichi un significato socio-economico molto importante: era un momento di incontro e di aggregazione tra i diversi popoli ed era opportunità di commercio e scambi economici. Quello che avviene ancora oggi a distanza di molti secoli.  
In età bizantina (IX-X secolo) il calendario era basato sull’Indizione”, cioè, il periodo utile al pagamento di tasse e tributi, cui nessuno sfuggiva, nemmeno lo stesso Imperatore da qui il modo di dire che si usa in politica “fiscalismo bizantino”, proprio ad indicare l’inflessibilità e la severità di quel sistema.
L’Indizione aveva inizio il 31 Agosto fino al 15 Settembre, la Fiera della Madonna del Pettoruto si colloca, infatti, dall’uno all’otto della “Prima Indizione”.
Il popolo si riuniva ancora, a distanza di 14 secoli, in età bizantina, appunto,  in quella spianata, che noi oggi chiamiamo “Piano della Fiera”e li si incontravano compratori e venditori, si vendevano i  propri prodotti in modo da incassare il denaro necessario per pagare le tasse e fare acquisti per la famiglia che doveva affrontare l’inverno ormai alle porte.
È chiaro, dunque, che la Fiera non è stata sempre dedicata alla Madonna: in età greca era dedicata alla dea Era, signora dell’Olimpo e sposa di Zeus. La politica greca per il controllo del territorio era basata proprio sul sistema di santuari extra-urbani intitolati a Era, protettrice della famiglia o a Demeter, protettrice della terra, dei raccolti o, ancora, ad Artemis, signora dei boschi, degli animali. In età romana e altomedievale alle divinità maggiori come Giunona (Era per i Greci), Diana (Artemis) e soprattutto Mercurio (Hermes).
In età bizantina la fiera era dedicata a Agios Sozon (San Sozonte), protettore di Ag. Sostis (San Sosti) di cui l’attuale centro abitato porta il nome.
                        Icona di Agios Sozon proveniente da Atene (Donazione, Angelo Romolo)


Questo era un fanciullo che viveva in Cilicia, una provincia dell’Impero Romano d’Oriente (attuale Turchia) e martirizzato il l’8 Settembre del 305 sotto l’Impero di Massimiano.
Durante il periodo dell’iconoclastia (la distruzione della immagini sacre e la persecuzione di tutti coloro che le veneravano) scatenata da Leone III Esaurico nel 717, migliaia di persone fuggirono dalla Grecia e trovarono rifugiarono in Italia Meridionale e in Sicilia, tra questi vi erano molti monaci che, giunti in Calabria fondarono grandi monasteri e cenobi. Quelli che si stabilirono sul nostro territorio fondarono il monastero intitolato ad Agios Sozon, (i cui ruderi si conservano in località Badia) il loro Santo protettore, e il centro abitato ne prese il nome: Agios Sostis.


Alla fine dell’XI secolo il Kastrum di Agios Sostis finisce in mano normanna come il resto della Calabria, così, i Normanni (i Vichinghi proveniente dalla Normandia), convertiti ormai al Cristianesimo e nemici giurati dei Bizantini, cercarono di cancellare ogni traccia del rito Bizantino(tuttavia senza risultato), proibendo la festa e la Fiera in onore di Ag. Sozon, intitolandole alla Madonna del Pettoruto.

ULTIME SCOPERTE ARCHEOLOGICHE

Durante i lavori per la realizzazione della rete del gas sono stati scoperti i resti di strutture murarie risalenti all'età romana databili tra il I sec. a.C. e il I sec. d.C., (vedi documentazione di scavo della Sovrintendenza per i Beni Archeologici della Calabria) ciò attesta che in località, oggi nota con il nome di Piano della Fiera esisteva un abitato romano sovrapposto, molto probabilmente ad uno più antico risalente all'età greca e forse qui è da ricercare il santuario dedicato a Era…
Perchè, dunque, cancellare questa millenaria tradizione? Un popolo che dimentica le proprie origini è come un malato mnemonico, cioè, un soggetto afflitto da grave patologia cerebrale che ha comportato la perdita della memoria. Egli no sa più chi è, non ricorda nulla del suo passato, tutta la sua vita precedente è stata cancellata. Come potrà pianificare e costruire il suo futuro?
Conservare gelosamente la nostra fiera millenaria è una delle priorità assunte dalla Consigliera di Maggioranza, Francesca Ranuio e appoggiata dall'intera Amministrazione De Marco. 
Grazie alla tenacia ed all'impegno della Ranuio, che la nostra Fiera ha ritrovato il suo antico splendore, registrando un impressionante numero di visitatori. E' stato fatto molto e si può fare ancora meglio, ma occorre l'impegno di tutta la cittadinanza, finchè questo evento ritorni ad essere uno degli appuntamenti culturali più importanti della regione. "SI PUO' FARE..."







giovedì 10 agosto 2017

Continuano gli studi su L’ABITATO ROMANO DI PAUCIURI



Continuano gli studi su

L’ABITATO ROMANO DI PAUCIURI

I primi scavi archeologici degli anni ’80 condotti con metodi non del tutto scientifici e privi di un’esauriente documentazione archeologica, avevano portato ad identificare il sito come una statio o una villa di età romana.
Allo stato attuale delle ricerche tale tesi è ormai del tutto sperata: si tratta in realtà di un vero e proprio abitato molto esteso che comprendeva l’intera pianura fino alla località Larderia di Roggiano Gravina e in direzione Nord-Ovest fino alla località Casino della Costa. 
  Nymphaeum

L’area attualmente scavata e ancora in fase di studi, altro non è che un quartiere del grande abitato provvisto di un Nymphaeum (fontana monumentale pubblica), di latrine pubbliche, e almeno tre impianti termali (uno degli impianti è stato scavato alla fine degli anni ’80 e ricoperto): uno pubblico e l’altro privato; l’esedra, cioè un luogo di culto e centro culturale e di un grande portico colonnato.
 Esedra

Tomba monumentale-Esedra

Le ultime scoperte hanno smentito anche la datazione, troppo approssimata delle prime campagne di scavo; il primo nucleo abitativo di Pauciuri risale alla fine del III e gli inizi del secondo secolo a.C. sul quale si sovrappone un nuovo abitato tra il I e il II sec. d.C.
Ciò è documentato dal rinvenimento del grande horreum, un magazzino porticato e colonnato al cui interno si conservano ancora una serie di pithoi, grandi vasi per la conservazione delle derrate alimentari. Nel corso delle ultime ricerche è stata rinvenuta una struttura rettangolare che faceva parte dell’horreum e che abbiamo battezzato 
Casa dei Pithoi

“La Casa dei Phitoi”, dove si conservano 4 di questi grandi vasi. Sulla struttura, databile tra la fine del II e gli inizi del I sec. a.C., si sovrappone la terma pubblica e la natatio (piscina privata). In direzione Sud-Est è stata parzialmente scavata la terma privata che si sovrappone ad un edifico con pavimento in opus spicatum coevo alla Casa dei Pithoi.
Terma privata 

L’area Sud-Est dello scavo, in fase di studi, sembra essere abbandonata verso la fine del IV sec. d.C. per cause che allo stato odierno delle ricerche ci sono ignote.  
Il sito archeologico di Pauciuri, nel comune di Malvito, è tra i più interessanti, dal punto di vista archeologico perché, a differenza di molti altri, presenta una continuità insediativa anche dopo l’età romana e fino alla fase medievale alta (X-XI sec. d.C.).
   

mercoledì 19 aprile 2017

Risale a 120 Mila anni fa il consumo della cannabis, le prove scoperte in una tomba paleolitica in Pakistan


Pakistan: sepoltura del Paleolitico Superiore. 120 mila a.C.

Durante uno scavo archelogico in un sito paleolitico nella zona montuosa dell’Hindu Kush, in Pakistan, gli archeologi hanno scoperto quella che sarebbe la più antica prova di utilizzo intenzionale di sostanze a scopo psicotropo da parte dell’uomo. Durante la ricerca, in un sito paleolitico, gli scienziati hanno scoperto semi, resina e cenere, associata alla sottospecie indica della pianta di cannabis sativa.

BRUCIAVANO CANNABIS NELLA GROTTA PER RESPIRARNE IL FUMO. Le analisi chimiche eseguite su un piccolo vaso di ceramica trovato nella tomba di quello che doveva essere un capo locale o uno sciamano, hanno rivelato che conteneva resina di cannabis, cioè hashish. Secondo il professor Muzaffar Kambarzahi del National Institute of Historical & Cultural Research (NIHCR) dell’Università Quaid-i-Azam, responsabile del team di scienziati che hanno lavorato allo scavo “la posizione e il contesto in cui è stata ritrovata la cannabis, ci portano a credere che sia stata utilizzata per scopi rituali. Sembra che gli occupanti del sito gettassero grandi quantità di foglie, gemme e resina nel camino situato sul fondo della grotta, allo scopo di riempire l’intero sito con il fumo che respiravano per godere delle sue proprietà psicotrope”.

LA PIU’ ANTICA PROVA DI CONSUMO INTENZIONALE DI DROGHE. Il sito in questione, ritrovato nel dicembre 2013 nella provincia pachistana del Khyber Pakhtunkhwa è uno dei più antichi mai ritrovati nell'Asia meridionale, e secondo gli studiosi le varie grotte che compongono l’insediamento sarebbe state abitate per più di 2500 anni durante il periodo neolitico. Sino a questa scoperta la più antica prova dell’uso intenzionale di cannabis si riteneva essere il ritrovamento di semi carbonizzati in un braciere rituale ritrovato in Romania e datato al terzo millennio a.C. Mentre nel 2003 un cesto di pelle contenente frammenti di foglie e semi di cannabis venne ritrovato accanto al corpo mummificati di uno sciamano del 2500-2800 a.C. nella Cina nord-occidentale. Prove del consumo di cannabis sono state trovate anche nelle mummie egizie datate circa 950 a.C.
La cannabis giunse in Europa con l'arrivo degli Indo-Europei intorno al V millennio a.C. 
Resti fossili dei semi di questa pianta sono stati rinvenuti nella Grotta della Sibilla a Cuma (Campania), all'interno di alcune patere votive offerte all'indovina. 

Angelo Martucci

martedì 4 aprile 2017

Sulle misteriosi origini dei Vichinghi PROTOCOLLO D’INTESA TRA L’UNIVERSITA’ DI HELSINKI E QUELLA DI FOGGIA Prima campagna di scavi archeologici condotta da un’equipe italiana a Oulu, nella Finlandia del Nord


Sulle misteriosi origini dei Vichinghi
PROTOCOLLO D’INTESA TRA L’UNIVERSITA’ DI HELSINKI
E QUELLA DI FOGGIA
Prima campagna di scavi archeologici condotta da un’equipe italiana a Oulu,

nella Finlandia del Nord
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A cura di:
Angelo Martucci - Emanuele Petrone

Finlandia, Oulu: pittura rupestre, IX-VII millennio a.C.

Dal punto di vista archeologico, la Finlandia è la meno esplorata e la meno conosciuta al mondo, eppure è la terra del leggendari Vichinghi, che con le loro piccole, ma velocissime imbarcazioni furono i primi a circumnavigare l’intero globo. Tuttavia, poco o nulla si sa dei primi insediamenti umani che dettero i natali a questo popolo fiero e bellicoso, questo a causa di due fattori principali: il clima proibitivo in alcuni periodi dell’anno e la quasi assenza di discipline accademiche con indirizzo archeologico. E’ l’Università di Helsinki una delle poche ad avere un dipartimento di Storia ed Archeologia (mutuante dalla Facoltà di Lettere), di recentissima fondazione, ma, che al momento non vanta di un vero e proprio staff di archeologici, per questo motivo ha stipulato un protocollo d’intesa con il Dipartimento di Lettere e Beni Culturali dell’Università di Foggia, che a sua volta ha istituito il corso di laurea in Archeologia dei Norreni.
Questo è il punto di partenza per una serie di ricerche archeologiche in un Paese ancora vergine e quasi sconosciuto ed è per questo motivo che lo staff di ricercatori e studenti che a breve si trasferiranno in Finlandia potranno essere considerati dei veri e propri pionieri di un nuovo ramo della ricerca archeologica “l’archeologia dei Norreni” in uno Stato del Nord Europa.    
I pochi dati messi a disposizione dall’Università di Helsinki ci dicono che le prime tracce di antropizzazione dell’area Nord dell’attuale Finlandia risalgono al 4200 a.C. identificabili con la cultura “Kunda” e successivamente con la cultura “Narva”, i cui tratti somatici appartengono al ceppo mongolico. E qui la prima incongruenza: nelle vicinanze del centro abitato di Oulu è stata rinvenuta una rete da pesca datata all’8000 a.C.
Chi abitava, dunque in quei posti prima dell’arrivo del ceppo mongolico? E perché del ceppo mongolico nell’area non è rimasto nessun insediamento? (bisogna andare in Lapponia per trovare attualmente questo ceppo etnico). A chi apparteneva quella rete da pesca risalente all’8000 a.C.?
Con molta probabilità ad un popolo antichissimo del posto, sopravvissuto all’ultima glaciazione, come ci suggeriscono alcune pitture rupestri scoperte recentemente nei pressi di Oulu, databili tra l’8000 e il 6000 a.C.
Due elementi fondamentali per identificare questa cultura denominata Soumusjarvi, e furono proprio loro a respingere le genti del ceppo mongolico proveniente dalla Lettonia verso Nord. Inizialmente, questo popolo viveva principalmente di caccia, ma ben presto iniziarono ad apprendere il mestiere del raccogliere, del coltivare e dell’organizzarsi in gruppi sempre più numerosi dando inizio alle razzie ed alle scorrerie verso sud.
Le nuovissime ricerche archeologiche ci hanno fatto azzardare un nuovo termine (suggerito da Beda il Venerabile, monaco inglese vissuto tra il VII e l’VIII sec. d.C.) per identificare questi guerrieri-navigatori “Gruppo Loðbrók” (Lothbrok): i Vichinghi.
Questo è solo il punto di partenza per una nuovissima fase di ricerche alla scoperta delle origini del grande popolo guerriero che noi chiamiamo Vichinghi, ma che sarebbe più corretto chiamare Gruppo Loðbrók-Norreni. 

domenica 19 marzo 2017

Classificato 15° tra 59 progetti da 5 Regioni italiane APPROVATO DAL MINISTERO DEI BENI E DELLE ATTIVITA' CULTURALI E DEL TURISMO PROGETTO "TRANSUMANZE CULTURALI TRA DUE PARCHI" PER UN IMPORTO COMPLESSIVO DI 100 MILIONI DI EURO


Classificato 15° tra 59 progetti da 5 Regioni italiane

APPROVATO DAL MINISTERO DEI BENI E DELLE ATTIVITA' CULTURALI E DEL TURISMO PROGETTO "TRANSUMANZE CULTURALI TRA DUE PARCHI" PER UN IMPORTO COMPLESSIVO DI 100 MILIONI DI EURO

Finalmente qualcosa si muove! E' grazie all'immane lavoro di progettisti seri e professionali presenti sul territorio, coscienti delle sue vicissitudini e soprattutto consapevoli dell'immenso Patrimonio Culturale presente, che attualmente versa in uno stato di pietoso abbandono e degrado,  che il Ministero dei Beni Culturali ha accolto e finanziato il progetto "Transumanze Culturali tra due Parchi con Decreto MiBACT Segreteria Generale Rep. Decreti 16.2.2017, n° 5.
L'importo complessivo del finanziamento, che prevede interventi per la valorizzazione delle aree di interesse culturale, è di 100 Milioni di Euro. In seguito alla firma del protocollo d'intesa tra il comune capofila e il Ministero, tutti i comuni partner dovranno attivarsi e progettare interventi seri inerenti alle linee programmatiche del progetto. Il comune capofila è Castrovillari, ma l'aspetto più importante è che per la prima volta entrano in un contesto così vasto i comuni della valle dell'Esaro, che per troppo tempo sono stati abbandonati a se stessi dalle istituzioni superiori: San Marco Argentano, San Sosti, Santa Caterina Albanese, Sant'Agata d'Esaro, Tarsia, Roggiano Gravina, Mottafollone, Malvito e San Donato di Ninea.
Ma i tempi di attuazione sono assai ristretti, entro giugno si deve produrre un documento strategico di comune interesse, che prevede lo studio, il recupero, la valorizzazione, la divulgazione e infine la fruizione delle aree di interesse archeologico e culturale presenti su questa parte di territorio italiano tra le più belle e suggestive al mondo.  

lunedì 23 gennaio 2017

NORVEGIA: STRAORDINARIA SCOPERTA SULLE ORIGINI DEI VICHIGNHI. Attestata la veridicità sull'Aquila di sangue.


  Dorset, Norvegia; Rituale vichingo II millennio a.C.

La notizia della scoperta è a cura di Emanuele Petrone, studente di Archeologia Nordica" presso l'Università di Foggia.

Due pile separate di ossa nei villaggio vichingo presso Dorset. Una conteneva solo le ossa dei corpi. In un'altra erano raggruppati i teschi di 54 Vichinghi. L'idea iniziale degli archeologi fu che i Vichinghi fossero stati sconfitti dagli occupanti del villaggio che assediavano, i loro corpi smembrati e poi seppelliti in una fossa comune. Ma le  teste fossero tagliate di netto da un colpo di spada frontale lascia qualche dubbio. Da attente analisi di laboratorio si è scoperto, invece che quei Vichinghi furono uccisi e poi sepolti seguendo un complesso rituale di smembramento dei corpi e decapitazione, secondo la migliore sceneggiatura di film horror. Si tratta di un rituale propiziatorio, secondo il quale bisognava placare le divinità e benedire la terra col sangue dei più valorosi guerrieri. Ma non si è trattato di una mattanza verificatasi in una sola volta, come si era pensato al momento della scoperta; si tratta di un luogo di culto frequentato per almeno un secolo. Ma le scoperte che hanno dello straordinario sono due essenzialmente: (1), tre scheletri presentano un particolare rituale chiamato dai Vichinghi "Aquila di sangue". Era la condanna che spettava ai traditori. Consisteva in una cerimonia espiatoria per la vittima designata che si era macchiata del crimine di tradimento: il re-sacerdote faceva inginocchiare la vittima senza che questa fosse legata, gli veniva aperta la cassa toracica dalla zona cervicale alla parte addominale, venivano tagliate delicatamente le costole, venivano estratti i polmoni e disposti a forma di ali di aquila, tutto questo mente il soggetto era ancora vivo e finalmente il sacerdote infilava la mano nella gabbia toracica e strappava il cuore. (2), gli scheletri e gli oggetti rituali risalgono alla prima metà del II millennio a.C.
Questa scoperta porta a riconsiderare tutto quello che era stato scrito sul popolo vichingo fino a questo momento e che ne collocava le origini al VII-VIII sec. d.C. 

Tuttavia, rimanevano gli interrogativi sul fatto che un popolo non può nascere ed avolversi dal nulla. Interrogativi, adesso che hanno trovano una prima, anche se perziale risposta: già nel II millennio a.C. esisteva un popolo di guerrieri che occupava la Norvegia e le terre del nord, che noi conosciamo col nome di Vichinghi. 

   Dorset, Norvegia; Pietra runica, II millennio a.C.

    Dorset, Norvegia; Rune incise su ossa umane, II millennio a.C.


                                                                         di:  Angelo Martucci

martedì 20 dicembre 2016

E' IN USCITA IL V VOLUME DI "TESORI DEL PARCO DEL POLLINO - Kyniskòs il campione della dea Era"

Copertina del V Volume

È in uscita l V volume di “Tesori del Parco del Pollino” interamente dedicato a Kyniskòs ed alla scure martello, il reperto più importante della Magna Graecia, insieme ai Bronzi di Riace, rinvenuto a San Sosti nel 1846, oggi custodito presso il British Museum di Londra.

Il volume contiene i risultati delle ricerche su Kyniskos, l’offerente della scure martello, uno dei reperti più importanti finora rinvenuto nella Magna Graecia, donato alla dea Era nella seconda metà del VI sec. a.C. La guerra, la palestra, il senso di lealtà verso la propria polis, l’orgoglio di appartenenza alla  propria stirpe, hanno fatto di uomo un mito, una leggenda, ricordato attraverso i secoli e celebrato dai più grandi artisti del mondo antico, primo tra tutti Policleto. A distanza di 2500 il mito di Kyniskos viene rievocato, ancora una volta, in occasione dei giochi olimpici del 2016 con una ricostruzione storica presentata ad Olimpia alla vigilia dell’apertura dei giochi.

sabato 17 dicembre 2016

EXCALIBUR: LA SPADA NELLA ROCCIA SI TROVA IN ITALIA

Rotonda di Monte Siepi (Siena): la spada nella roccia, XII sec. d.C.

Rotonda di Monte Siepi (Siena): la spada nella roccia, XII sec. d.C.

Rotonda di Monte Siepi (Siena): la spada nella roccia, XII sec. d.C.

Rotonda di Monte Siepi (Siena).

 Galgano ebbe una gioventù improntata al disordine e alla lussuria, salvo in seguito convertirsi alla vita religiosa e ritirarsi in un eremitaggio vissuto con la medesima intensità con cui aveva precedentemente praticato ogni genere di dissolutezze.
Era un giovane violento, ma era destinato a cambiare vita e a diventare un Cavaliere di Dio come profetizzatogli da "Misser Santo Michele Arcangelo": ebbe infatti due visioni successive in cui l'arcangelo Michele gli indicò il suo percorso di vita.
Nella prima visione era tracciato il suo destino di cavaliere sotto la protezione dell'arcangelo stesso, mentre nella seconda l'arcangelo lo invitava a seguirlo.
Seguendo l'arcangelo Galgano attraversò un ponte molto lungo al di sotto del quale si trovava un fiume ed un mulino in funzione, il cui movimento simboleggia la caducità delle cose mondane.
Oltrepassato il ponte ed attraversato un prato fiorito, che emanava un profumo intenso e soave, raggiunsero Monte Siepi, dove, in un edificio rotondo, Galgano incontrò i dodici apostoli. Qui ebbe la visione del Creatore: fu quello il momento della conversione. In seguito, durante degli spostamenti, per due volte il cavallo si rifiutò di proseguire e la seconda volta, solo dopo una intensa preghiera rivolta al Signore, il cavallo da solo e con le briglie sciolte lo condusse a Monte Siepi, nello stesso posto dove la visione gli aveva fatto incontrare i dodici apostoli. Qui Galgano, non trovando legname per fare una croce, ne fece una infiggendo la propria spada nella roccia, quindi trasformò il proprio mantello in saio e come tale lo indossò.
Sentì anche una voce che veniva dal cielo che lo invitava a fermarsi in quel posto fino alla fine dei suoi giorni: iniziava così la sua vita da eremita, cibandosi di erbe selvatiche e dormendo sulla nuda terra. Lottò e sconfisse con la sua fermezza il demonio che lo tentava.

Durante la sua assenza per un pellegrinaggio alle basiliche romane, tre monaci invidiosi cercarono di estrarre la spada dalla roccia per rubarla, ma non riuscendovi la vollero rompere per oltraggio. Il castigo di Dio fu immediato: uno cadde in un fiume ed annegò, un altro fu incenerito da un fulmine ed un terzo fu afferrato per un braccio da un lupo e trascinato via, ma si salvò invocando Galgano. Secondo la leggenda, le mani mummificate conservate nell'attigua cappella del Lorenzetti sarebbero proprio quelle del monaco invidioso, ma probabilmente si tratta dei resti dei primi seguaci di San Galgano rinvenute nel luglio 1694 nel sagrato della Rotonda: la radiodatazione col C14 le fa effettivamente risalire al XII secolo, quindi contemporanee a San Galgano.

Galgano e la spada nella roccia

Al ritorno dal pellegrinaggio, Galgano trovò la spada rotta e provò un grande dolore, ritenendosi responsabile per essersene allontanato; Dio però, volendolo consolare, gli disse di ricomporre la spada posando il pezzo rotto sulla parte infissa nella roccia. Galgano obbedì e i due pezzi si saldarono perfettamente: la spada si ricostituì più forte di prima. L'episodio è raffigurato in un dipinto conservato nella Pinacoteca nazionale di Siena, opera di Giovanni di Paolo (1403-1482). L'eremita costruì poi un romitorio e vi condusse una vita di meditazione e preghiera fino al giorno in cui la voce di Dio, in una luce immensa, gli annunciò la sua morte.
Presenziarono alla tumulazione del suo corpo Ildebrando Pannocchieschi, vescovo di Volterra ed i vescovi di Siena e Massa Marittima.
Appena quattro anni dopo la sua morte, dopo che un'apposita commissione diretta dal cardinale Conrad di Wittelsbach ebbe condotto la relativa inchiesta, papa Lucio III lo proclamò santo.
Ma la spada nella roccia è legata al filone letterario franco-provenzale del XII secolo e al ciclo Carolingio, dove si narra che Artù avrebbe estratto la spada per regnare nel segno della giustizia divina. 

Artorius Castus (King Artur), 410 d.C.

Le scoperte archeologiche e letterarie degli ultimi decenni hanno fatto luce su due vicende apparentemente legate, ma anacronistiche: è ormai appurato che Artù, in realtà era un ufficiale romano il cui vero nome era Artorius Castus al comando della IX legione di stanza al Vallo di Adriano; il vallo è un muro fortificato lungo 117 km fatto costruire dall'imperatore Adriano nella prima metà del II sec. d.C. che divideva la Britannia in due regioni, quella a Nord era la terra dei Celti, popolazioni primitive organizzate in villaggi e governate da sacerdoti-guerrieri, i Druidi, cui si attribuivano capacità magiche e guaritrici. Quindi, anche la figura di Merlino è non inventata, bensì storica, realmente vissuto tra il IV e il V sec. d.C.

La vicenda di Artorius (Artù) non risale all'epoca di Galgano, in realtà si è verificata molto prima, cioè nel 410 d.C., quando le legioni romane abbandonarono la Britannia perchè era ormai indifendibile. Ha inizio una nuova pagina storica per l'Inghilterra ma bisognava creare il mito: la spada magica, forgiata con il sangue della Britannia, il guerriero celtico che la estrae dalla roccia riscatta la sua terra e la unisce sotto un unico potere. Ecco che Galgano viene identificato dalla letteratura provenzale con Artù.   



Angelo Martucci